Arch. Giacomo Borella

 

Ho seguito con una certa trepidazione il progredire delle immagini perché, anche se penso di essere stato chiamato a questo dibattito per i miei articoletti sul Corriere della Sera, io sono anche un progettista, anche di sottotetti: temevo di veder comparire tra gli “eco-mostri”, messi alla berlina qui sullo schermo, anche qualcuno dei nostri progetti.

Devo dire che sono un po’ disorientato. Da un lato, se vi interessa sapere il mio parere, la legge 22/99 è una legge piuttosto balorda e io sarei in sostanza favorevole ad abolirla. Principalmente perché è un ennesimo svuotamento e deroga degli strumenti urbanistici, che rende fittizi gli indici stabiliti dal Piano Regolatore, e quindi anche tutti i parametri su cui sono calcolati gli standard, i servizi, i trasporti, i parcheggi. In pratica è una misura che aumenta la densità, che non è in sé un fatto in assoluto negativo, ma lo è assolutamente se non è frutto di una strategia, di una “filosofia” complessiva, e avviene, come in questo caso, surrettiziamente e a caso.

Questa legge si fonderebbe poi su due principi: il primo è quello del “risparmio di territorio”, che è tutto da dimostrare, nel senso che la domanda di casa non è certo una cosa così lineare e generica, che se io la soddisfo da una parte non devo più costruire da un’altra; l’altro è quello del “risparmio energetico”, che è invece in questo caso sostanzialmente falso. Anzi questa legge di fatto favorisce l’incremento dei consumi energetici. La tipologia tradizionale del tetto destinato a solaio, che con i nuovi sopralzi viene eliminata, costituiva una camera d’aria naturale, e anche le “cianfrusaglie” che ospitava funzionavano in qualche modo da “materiale isolante”. I sopralzi che vengono realizzati invece sono costruiti come si costruiscono le case in Italia, salvo rare eccezioni, cioè con soluzioni tecniche e isolamenti molto insufficienti, cioè in barba, o forse anche ai sensi della “legge 10”, che è proprio la legge sul risparmio energetico, che è anch’essa un po’ una presa in giro, nel senso che tutti i tecnici sanno che si tratta di un calcoletto che si fa “tornare” in teoria, ma che poi in pratica si fa come si vuole. Quindi in realtà grande riscaldamento in inverno e grande condizionamento in estate, molto di più che ai piani inferiori perché i tetti sono ovviamente molto più esposti.

Infine c’è l’interpretazione addirittura surreale, che trovo veramente vergognosa, di questa legge, data da una circolare regionale che considera recuperabili anche i sottotetti di edifici ancora da costruire! Questo è un puro e semplice regalo alle lobby immobiliari, è un bonus automatico di cubatura rispetto a quanto stabilito dal Piano Regolatore. Ogni costruttore oggi a Milano può costruire (e quindi costruisce, sempre) un piano in più di quanto dovuto, un quarto, un quinto in più della cubatura stabilita dagli strumenti urbanistici!

Se un poveretto di progettista oggi si ostina a tentare di fare dei progetti decenti, deve tener conto anche di questo, cioè fare una casa che sia, diciamo, “bella”, sia con un piano in meno –come quando consegna il progetto in Comune, e come rimarrà se per caso, durante il cantiere cambierà questa norma, come può accadere- sia con un piano in più –come sarà dopo il “recupero” del sottotetto. E’ una delle tante pazzie che compongono il quadro folle in cui gli architetti si trovano a lavorare oggi.

Queste sono le ragioni per cui io sarei favorevole all’abolizione di questa legge. Come vedete non per questioni legate al “decoro”, al brutto o al bello, che sono cose che hanno poco a che fare con leggi e divieti e che invece vedo, sulla stampa e anche qui questa sera, sono i termini attorno ai quali ci si scalda di più.

Che cosa succede qua, stasera? C’é un po’ quella dinamica ben nota che mi sembra si chiami “nimby” (Not In My Back-Yard = non nel mio cortile).

Questo appassionamento da una parte è molto interessante, nel senso che non capita spesso di trovarsi alla sera in duecento a discutere della forma di una finestra, o di un tetto: in questo c’è qualcosa di molto bello. Dall’altra parte invece mi preoccupa un certo clima plebiscitario o da assemblea di condominio, come dire, quasi di berlina contro questi progetti che avete fatto vedere, che pure, se qualcuno ha letto i miei articoletti sul Corriere, sa che li trovo molto spesso grotteschi.

Mi preoccupa il fatto che mi sembra che qui si invochi sostanzialmente l’”Ordine”. Ho segnato le parole che sono state usate, c’era qualcosa che aveva addirittura a che fare con l’”ordine pubblico”, le parole erano “diffida, vincolo, orrendi, controlli, mancanza di simmetria, schifoso, scempio”. Ma c’è qualcuno, qualcosa, in grado di stabilire un principio di Ordine, oggettivo, sul modo in cui si devono sopralzare le case, sul modo in cui bisogna progettare l’architettura? In un primo tempo mi sembra che foste tutti d’accordo sul fatto che questa garanzia assoluta era data dalle valutazioni della Commissione Edilizia. Ma poi avete mostrato dei progetti che erano stati approvati proprio dalla Commissione Edilizia, ed erano effettivamente orrendi anche quelli. Anche la Commissione Edilizia non applica questi “principi d’Ordine”. Poi Sacerdoti ha detto una cosa, su cui mi sembra ci sia un grande consenso, l’ha anche scritta sullo schermo, che viene indicata come un fatto scandaloso, un fatto grave, che andrebbe sanzionato. Ed è il caso in cui, cito le parole, “ materiali e forme contemporanei vengono sovrapposti a facciate di edifici storici”.  Questa è una posizione che io trovo pazzesca, di una povertà brutale, direi anche “di destra”, e mi dispiace che i Verdi spesso facciano questa confusione. La storia della città e del paesaggio è la storia delle sue trasformazioni, anche dei singoli edifici, e la storia del mondo è anche la storia della capacità di trasformare degli uomini che lo hanno abitato. Invito chiunque a parlare di una casa, di un monumento, che non sia il frutto di una molteplicità di trasformazioni e di modifiche. Negare questa ricerca difficile di un accordo, di un dialogo, anche di un conflitto vitale, con l’ambiente che abbiamo ereditato, implica da un lato una tremenda de-responsabilizzazione, da un altro instaura e accetta un atteggiamento schizofrenico. Questa idea ci consegna a una città vista come finzione, scenario, come “messa in costume”, ai centri commerciali in stile tirolese cartonato.

Ma torniamo ai nostri poveri sottotetti: bisognerebbe quindi costruire “in stile”. Però poi tra gli altri “eco-mostri” abbiamo visto quel sopralzo in Piazza Caiazzo. Se tu torni a quell’immagine, io vi faccio vedere che lì è stato copiato e riprodotto un pezzo della facciata dell’edificio vecchio sottostante. Lì c’è una trifora a sinistra, che riprende esattamente le dimensioni della trifora sottostante. Eppure è un’architettura infelice, che suona totalmente falsa e non è certo meno “impattante”, per usare una parola molto usata che vuol dire tutto e niente, una “parola-ameba” come avrebbe detto Ivan Illich.  Allora dobbiamo riconoscere che anche lo “stile” è una cosa complessa. E che non c’è nessun precetto che ci sollevi dal doverci interrogare, dal ricercare, dallo studiare, studiare per esempio la storia dell’architettura moderna, che oltre che una storia di insuccessi e schematismi, è anche una storia di generosa ricerca di “accordo tra diversi”.

Un’altra cosa che si è detta, è che le parti nuove non si devono vedere, vanno nascoste: mi sembra un criterio un po’ povero, mi ricorda un po’ il principio con cui vengono disposti i bungalow nei villaggi turistici.

Tutte queste cose compongono un’idea di città che assomiglia a quella che aveva Gadda, che quando descriveva o raccontava storie descriveva uomini e città attorcigliate, storte, barocche, movimentate e ribollenti di vita, umori, forme, ma quando teorizzava o criticava la città reale, lo faceva da “ingegnere” e la voleva dritta, allineata, irreggimentata. Parlava dei tetti di Milano, e si lamentava della loro stortezza, gibbosità, tortuosità. E diceva: le linee di gronda delle case non sono allineate tra loro. Ecco, mi sembra che oggi l’estetica prevalente sia questa. E notate che, per esempio, l’allineamento delle linee di gronda è una criterio che si è affermato in periodi piuttosto brevi della storia della città. Solo adesso nelle commissioni edilizie, negli articoli sui giornali, è diventata la regola che dovrebbe garantire l’armonia della città. Ma pensiamo alla città medievale o, a Milano, alla zona storica dei Navigli, che ora viene vista in una luce tutta oleografica, ma non ha per esempio una sola gronda allineata con un’altra.

L’altra cosa che nell’immaginario popolare sta diventando proprio la bestia nera sono i frontespizi ciechi, i fianchi delle case senza finestre, una cosa che terrorizza. Questi contrasti vengono giudicati come uno squilibrio nell’ordine armonico della città. Mi sembra che mentre di fatto produciamo una dissonanza molto forte, sogniamo un’uniformità assoluta, senza conflitti e attriti.

E tornando alla questione dell’Ordine: come è possibile invocare un Ordine, un principio assoluto di questo tipo, in un contesto in cui io non sono d’accordo con moltissime delle cose che hanno detto stasera i miei colleghi architetti, i dirigenti del Comune, non sono mai d’accordo con quello che scrive Marco Romano che è qui in prima fila, che è insigne professore universitario da una vita, e che scrive sulla prima pagina dello stesso giornale in cui nelle ultime pagine scrivo io.

Se dobbiamo riconoscere un principio d’Ordine oggettivo, allora non può che essere il senso comune della maggioranza. E io credo che il senso comune della maggioranza in merito all’immaginario architettonico e abitativo in Italia in questo momento è incarnato dalle figure di Sgarbi e Berlusconi.

Sgarbi dal punto di vista dell’idea del rapporto generale, per esempio, tra vecchio e nuovo. E’ il massimo teorico, forse insieme al principe Carlo d’Inghilterra, di quell’idea, che abbiamo visto prima, che nega la possibilità di un dialogo tra presente, passato e futuro, la possibilità di un nostro contributo con i materiali e le forme di oggi a ciò che ci hanno lasciato le generazioni precedenti, la possibilità di un dialogo vivo con quello che abbiamo ereditato. E’ l’importazione in ambito architettonico e ambientale della teoria della “Fine della Storia”. Quindi la storia, d’ora in poi, come imitazione e finzione, la città come disneyland, i fast-food in stile vecchia fattoria.

Berlusconi dal punto di vista dell’immaginario abitativo, con Milano Due e il divieto di stendere le mutande sui balconi. Io sono sicuro che probabilmente avremmo avuto una concordanza minore di indignazione se avessi proiettato qua le case di Milano Due. Quanti avrebbero pensato che quell’idea di città è disumana e disperante e quanti avrebbero trovato in fondo poco da ridire su quell’idea di “decoro”?

Allora quello secondo me è un modello estetico e anche addirittura forse antropologico sui cui dovremmo riflettere, per accorgerci di quanto ci ha colonizzato, sinistra e verdi compresi..

Sento qualcuno che mi chiede “ma allora, cosa pensi tu?” Io penso innanzitutto che non è una questione che si può risolvere solo in termini di quantità, garanzie, regole, numeri. Ora è stata introdotta questa “Valutazione di Impatto Paesistico” che con una formuletta algebrica che dà un voto al luogo in cui si va a intervenire, un voto al grado di “impattanza” del progetto, e – moltiplicando l’uno per l’altro- un voto complessivo, pensa di risolvere il problema. L’architetto Toccolini, della Commissione Edilizia, diceva prima che in fondo i voti servono, che vede che i voti ai suoi figli, a scuola, servono. Ecco, mi sembra che questo meccanismo burocratico introduca un’ulteriore grado di scolarizzazione, di “liceizzazione”, cioè di de-responsabilizzazione, nel  processo di progettazione. E’ una parodia di una riflessione reale, della reale valutazione di un problema, in cui invece c’è per forza un’assunzione di responsabilità da parte di chi fa il progetto. Espropria il progettista, il funzionario comunale, tutti gli attori, della possibilità e del dovere di capire come è fatto un luogo, come si è stratificato, come si è costruito, e di come può essere fatto il progetto.

Con questa formuletta che assomiglia a un quiz per la patente, si dà un valore da 1 a 5 -1 se non è “impattante”, 5 se è “impattantissimo”- e poi un altro da 1 a 5 sul grado di sensibilità di un sito. Quindi chiaramente se io costruisco in Piazza Duomo ho un punteggio 5, se io costruisco a Quarto Cagnino avrò molto probabilmente 1.

Se ci sono edifici monumentali nelle vicinanza, se ci sono cose assurde da catalogare come “valori simbolici o tradizionali”,  o addirittura percorsi processionali che passano da quelle parti (e qui la correzione automatica del computer ha aggiunto un altro aspetto surreale perché nel testo si parla di percorsi “professionali”) , siccome si moltiplica un valore per l’altro, se ho 1 da una parte e 4 dall’altra, rimango sotto il 5, il progetto non deve essere esaminato dalla Commissione Edilizia, e va avanti molto più in fretta. Questa è la discriminazione che trovo terribile, cioè non è importantissimo dappertutto il modo in cui tutti i progetti vengono fatti,  ma è importante solo in certi luoghi: ci sono cioè luoghi di serie A e luoghi di serie B.